Tanto infuriano in questi giorni i violenti scontri in Ucraina, quanto abbondano le semplificazioni, le distorsioni e le lacune storico-politiche riguardo all’intera vicenda; sulla quale è utile, per dovere di cronaca, chiarire brevemente alcuni fra i suoi aspetti più importanti.
Il “dittatore” e “despota” Yanukovich è Presidente dell’Ucraina perché democraticamente eletto, così come il suo Partito delle Regioni presiedeva il governo, fino a pochi giorni fa, per lo stesso motivo. Viene spontaneo chiedersi perché un governo legittimato dal voto popolare non abbia diritto a sedare violente manifestazioni di piazza come accade in tutti i paesi del mondo – democrazie occidentali in primis – senza provocare simili indignazioni. Sono ancora sotto gli occhi di tutti le violente repressioni avvenute in Francia e Inghilterra dopo le rivolte delle periferie a seguito di omicidi perpetrati dalle forze dell’ordine, così come quella del movimento pacifico Occupy Wall-Street in America o ancor peggio, quella contro il corteo a sostegno della famiglia tradizionale, sempre in Francia. Solo per citarne alcune ed evidenziare, in quei casi, la mancanza del medesimo sdegno da parte della comunità internazionale. Se a questo si aggiunge l’incomparabilità delle violenze appena citate (spontanee, disorganizzate e senza alcun utilizzo di armi da fuoco) con quanto stia accadendo ora a Kiev, è facile intravedere una lettura iniqua dei fatti e, come spesso accade, due pesi e due misure. Nella capitale ucraina agiscono corpi inquadrati, armati e preparati agli scontri di piazza, in grado di attuare sistemi di collaudata guerriglia urbana grazie anche alla presenza, fra le loro fila, di ex appartenenti alle forze armate. Come reagirebbe la polizia americana di fronte a cittadini che occupano palazzi governativi e riducono in fin di vita decine di agenti?
Altra considerazione: il fronte della protesta che tanta compassione ha ispirato in Europa e negli Stati Uniti, è composto solo in minima parte da quella porzione di società d’ispirazione liberal che si vuol spesso considerare trainante e decisiva nella spinte verso politiche riformiste di stampo occidentale (in Ucraina e non solo, “primavera araba” docet). Al contrario, fulcro dei moti di piazza sono movimenti violenti e marcatamente nazionalisti, quando non addirittura filo-nazisti. Un elemento che sembra passare in secondo piano ma che genera un legittimo dubbio: se i movimenti definiti di “estrema destra” sono sistematicamente vittima di violentissimi attacchi ed infamanti accuse da parte dei media di tutta Europa, è solo quando si pongono in funzione anti-russa – e vengono, nell’occasione, spacciati per paladini dell’europeismo – che le loro gesta vengono stigmatizzate o il loro (abitualmente enfatizzato) antisemitismo viene sminuito, se non taciuto?
Poi. Non sarà sfuggita ai lettori più attenti – e che attingono le loro informazioni anche oltre i media mainstream – una valutazione già fatta altrove ma che merita di essere annoverata: cosa sarebbe accaduto e quale clamore mediatico si sarebbe scatenato, se figure di primissimo piano della politica russa (o anche cinese) si fossero apertamente schierate dalla parte dei rivoltosi in una sommossa in chiave antiamericana scoppiata, putacaso, in Messico? E se continui attestati di stima, solidarietà ed istigazione ai rivoltosi continuassero a giungere in questa direzione? Pochi giorni fa, il ministro degli Esteri russo Lavrov si è trovato a dover definire “strana” questa concezione della libertà acclamata da diversi paesi occidentali. Concezione che prevede l’incitamento alla violenza dei rivoltosi e la condanna dell’operato delle forze di polizia, quando all’interno dei loro confini si pronuncerebbero in senso esattamente opposto. Gli si può dar torto? Il divieto d’ingerenza negli affari interni di uno Stato è uno dei pochi principi di jus cogens previsti dalla Carta delle Nazioni Unite, nel caso ucraino più volte calpestato. Accadde durante la “rivoluzione arancione” quando ONG straniere (polacche e americane soprattutto) fomentarono le manifestazioni antirusse e accade nuovamente oggi. Solo Sergio Romano – nel panorama intellettuale e giornalistico di casa nostra – pare essere in grado di ricordarlo?
E ancora. Checché se ne dica sul passato dell’Ucraina, è assai difficile scindere la sua storia da quella della Russia. Il suo territorio odierno rappresenta (esclusa la parte più occidentale, con una storia parzialmente diversa) la culla della nazione russa in quanto patria della Rus’ kieviana; ha sofferto e condiviso la dominazione mongola tanto quanto i principati vicini e, in seguito alla reconquista russa, è sempre stato parte integrante dell’impero zarista, prima, e di quello sovietico, poi. Lo stato ucraino così come lo vediamo oggi, è qualcosa di molto recente così come il suo sciovinismo esasperato e che lascia spesso il tempo che trova. Le ragioni storico-culturali sbandierate negli ultimi due mesi sulla necessità per Kiev di associarsi all’Unione Europea piuttosto che legarsi a Mosca non trovano, come spesso accade, un riscontro oggettivo: mettendo su di una bilancia storia, costumi, religione, economia e lingua, il piatto pende senza indugi dalla parte della Russia.
Infine, numeri alla mano, vi sono come sempre ragioni prettamente economiche in ballo di cui evidentemente piazza Maidan non è a conoscenza (o finge di non esserlo) e che i capi di Stato europei sembrano, invece, conoscere anche troppo bene; visto l’approccio idealistico ma poco pragmatico verso il cuore della vicenda. L’economia ucraina è in grave crisi, il governo arriverà – secondo le previsioni più rosee – a pagare gli stipendi e le pensioni solo fino a giugno. Chi interverrà a salvare il Paese se non la Russia con la sua offerta (ricordiamola, 15 miliardi di dollari in bond ucraini e sconto di un terzo sul prezzo del gas) rimasta l’unica seria, sul tavolo, oramai da due mesi? L’UE a quella cifra non può e non vuole arrivarci. Il FMI neppure e per molto meno ha posto condizioni inaccettabili. E gli Stati Uniti, come giustificherebbero un simile esborso alla propria opinione pubblica, trovandosi all’alba di un proclamato periodo di disimpegno internazionale? A questo si aggiunge poi il dubbio, più che legittimo, sul fatto che gli ucraini siano veramente a conoscenza di ciò che spetta loro entrando a far parte dell’UE. In un paese dove lo stipendio medio ammonta a 300 dollari, con produzioni di scarsa qualità e che dipende dalle importazioni della Russia, che effetti avrebbero l’apertura del mercato secondo regole europee e l’instaurazione delle rigide politiche di austerità in atto già ora fra i Paesi membri?
Alla luce di queste incongruenze e forti, purtroppo, di altri simili casi avvenuti nel recente passato, è davvero un delirio da Guerra Fredda intravedere in questo sostegno alle rivolte ucraine nient’altro che la prosecuzione – in spregio alle promesse fatte allora da Bush Sr. a Gorbaciov – del piano di accerchiamento ordito contro la Russia all’indomani della caduta dell’URSS e tessuto con calma, ma inesorabilmente, negli anni? Se la partita in Asia Centrale ha regole, giocatori e scenari favorevoli a Mosca, in Europa orientale tutto è ancora in bilico. L’Ucraina costituisce un tassello fondamentale per il ristabilimento dell’influenza russa nella sua storica (e legittima) sfera di competenza. Questo lo sanno al Cremlino, così come alla Casa Bianca.